venerdì 1 novembre 2013

Un minuto prima dell'atterraggio.

C'erano alle mie spalle tre settimane di pioggia e nessuna traccia degli odori consueti, una notte insonne e l'assoluta incoscienza di cosa avrebbe riservato la mia vita, congelata in quel bollente squarcio d'estate, lì dov'era casa mia.
L'ora migliore da che sono al mondo: il paesaggio completamente azzurro e vagamente increspato del mare del sud, il sole radente del mattino nell'oblò del finestrino dell'aereo. Non una nuvola. E tu avresti potuto essere lì a dirmi che mi stavi aspettando, che mia avresti amata finché il tempo avesse voluto. Allora, il futuro sarebbe potuto essere qualunque cosa: sospesa, a diecimila metri sopra la mia terra, tutto era fermo ed io ero N volte, la persona che sarei stata domani. Poi ho toccato terra, c'erano due persone amate ad attendermi, amavo il sudore che il sole bollente produceva sulla mia pelle coperta da abiti inadatti al clima dolcissimo della mia città, e, stanca, non avevo voglia di dormire, ma solo di godermi l'attesa che quel limbo prendesse la forma della realtà.
Poi venne settembre e niente accadde, di ciò che era racchiuso in quel momento celeste, prima dell'atterraggio. Eppure niente è ancora riuscito ad eguagliare la gioia quasi estatica che ho provato prima di toccare terra, entusiasta di tornare a casa, da te che non ci saresti stato. Dal mio letto, comodo e dal buon odore, da tutte le mie imprescindibili abitudini fastidiose, dalla città a misura d'uomo dove ho imparato tutto.
Penso che partirò di nuovo, appena potrò. Per poter tornare.